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martedì 19 agosto 2014
Il faggio Patriarca
Era un bambino quando allungava il braccio per indicare i ciliegi, i peri, i meli, i peschi in lontananza sulla collina. Per un’illusione prospettica sembrava che quegli alberi così piccoli crescessero sulla mano aperta verso il cielo. Le vacanze estive e pasquali dal nonno a Reseretta, a Tarzo, erano una continua scoperta: una nuova pianta, un insetto, un sentiero, una nuvola dalla forma strana.
Classe 1935, Armando Dal Col viveva a Longarone, dove mamma e papà avevano un negozio di frutta e verdura molto prima che l’ingegner Carlo Semenza progettasse la diga del Vajont. La tragedia andrà in scena alle 22.39 del 9 ottobre 1963. Quella sera Armando ritorna dalla Val Zoldana ed è diretto a Belluno dove abita con la famiglia e dove da qualche tempo per hobby coltiva degli alberi in miniatura. Passa a salutare i genitori intorno alle 21. La mamma lo invita a rimanere, è arrivata la sorella Silvana dalla Germania e c’è anche uno dei nipotini. È tardi, facciamo una di queste sere, non ti preoccupare, dice Armando, poi sale in macchina e riparte. Saprà il giorno dopo che sono tutti morti e ripenserà a quelle domeniche, quando con gli amici andavano a Erto e Casso, e i discorsi erano sempre gli stessi: Prima o poi il Toc viene giù, Se non è quest’anno è il prossimo.
I piccoli alberi diventano ancora più importanti e nel 1966, visitando la fiera Euroflora a Genova, scoprirà che il suo hobby è una delle discipline della filosofia zen, come il tiro con l’arco, la cerimonia del tè, la composizione di haiku, l’ikebana e le arti marziali.
Oggi Armando Dal Col è uno dei più importanti maestri bonsai in ambito internazionale: il debutto avviene nel 1986 quando con il suo faggio Patriarca lascia a bocca aperta la Nippon Bonsai Association che lo nomina “istruttore meritevole” e gli consegna il primo premio del concorso mondiale.
Lo aveva visto in una delle sue passeggiate nella foresta del Cansiglio: quel faggio, crivellato dai pallini dei cacciatori e schiacciato contro una roccia, stava morendo. Per cinque anni se ne prese cura, ogni tanto diceva: Vado a trovarlo, e la figlia meravigliata: Non è mica una persona!
A primavera tagliò la radice principale, quella che usciva dalla pietra e si infilava nel terreno: contò 200 anelli. L’anziano amico continuò a crescere con vigore finché un giorno … È difficile da spiegare, sentii che ero l’albero e l’albero era me. Anche il vaso in ceramica del Patriarca ha una storia particolare: il maestro vasaio della famiglia imperiale giapponese, visto il bonsai, predisse alla pianta un grande avvenire e pose tre condizioni per la creazione del vaso: nessun limite di tempo, di spesa, e nessuna interferenza sulla scelta della forma e del colore. Selezionò le argille più rare, pensò alla forma e alle sfumature, e infine lo modellò; il tempo della cottura fu di una settimana, di un mese quello del raffreddamento con fuoco d’erba; la consegna avvenne dopo tre anni.
Un pesco da frutto, una cidonia da fiore, una forsizia, un pino marittimo come sospinto da continue raffiche di vento, un nocciolo come spaccato dal fulmine, un boschetto di minilarici che sta in un abbraccio, e tanti altri piccoli alberi, più di cinquecento, vivono uno accanto all’altro nel Giardino della Serenità, in centro a Tarzo, poco distante dalla casa del nonno, a Reseretta. Armando e sua moglie Haina accolgono con un sorriso ospiti e allievi che arrivano da ogni parte del mondo. Accanto all’entrata, un pensiero: “Cerco il posto ideale dove indugiare, dove ascoltare il cinguettio degli uccelli e il rumore delle fronde scosse dal vento, dove cogliere l’essenza dello spirito del wabi-sabi: nulla dura, nulla è finito, nulla è perfetto.”
Pubblicato da Mario Anton Orefice a 09:09
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